06 giugno 2023

Le due Ucraine - parte 1

24/04/2014 

Non è ancora spuntato il sole e siamo in direzione Luhansk: un altra di quelle città che aspira a diventare capitale di uno staterello fantoccio di Vladimiro Putìn.
Da qualche giorno io e Dima abbiamo la paranoia di essere spiati, so che ci facciamo i film ma rimane comunque una brutta sensazione, ogni volta che vedo una grossa macchina nera o incrocio lo sguardo particolarmente incazzato di qualcuno mi scattano i flash in testa, riesco a gestire la cosa, certo che però anche vivere in un ostello al pian terreno con altri morti di fame non è proprio un idea geniale.
Lunedì - mentre coi miei degni compari giravamo per Slovyansk - i separatisti hanno rapito Simon Ostrovsky e un altra giornalista: Irma Krat; sappiamo solo che sono vivi e che sono stati i separatisti a rapirli, non abbiamo altre info al momento.
Ieri Dima ci ha parlato di una piccola città a nord di Luhansk dove i cittadini si sono organizzati per fatti loro: hanno messo su dei checkpoint e cacciato un gruppetto di separatisti, è un aspetto del paese diverso da quello che ho visto fino ad ora e da quello che fanno vedere sui media, non ho proprio voglia di fossilizzarmi con le solite barricate e la triste realtà di Donetsk, sarà buona cosa andare. 
A Lugansk incontreremo un amico di Dima… Amico tanto per dire, i due manco si conoscono: Dima ha chiesto a un suo amico un contatto a Luhansk e questi gli ha dato il telefono di un suo un collega di università.



Al primo sguardo Luhansk ha un aspetto più vintage e sovietico rispetto a Donetsk, l’atmosfera è malinconica e plumbea, le ciminiere svettano lontano sullo sfondo, l’asfalto è crepato, il classico panorama che ti aspetteresti da una laboriosa città post sovietica.
Ci avviamo a piedi verso il centro, non molto distante dalla stazione: io, Dima, Paul e Olya sembriamo quattro strani gatti in giro per la città: chissà la gente cosa pensa quanto ci sente parlare “angliskij”; sento certe brutte energie negative che Donetsk se le sogna. 
Il capo dei separatisti è un tal Bolotov, i suoi uomini hanno già occupato e barricato alcuni edifici, da quanto ho capito qui i filorussi sono molto più bellicosi di quelli di Donetsk. 

Arriviamo alle barricate che circondano l’SBU, a contrasto di quanto sento trovo davanti l’ingresso un tizio in mimetica che sventola allegramente la bandiera coi colori di S. Giorgio su di un piedistallo di copertoni, al provetto e sorridente sbandieratore del palio di Siena gli si illuminano gli occhi quando vede la mia fotocamera, mi chiede di scattargli delle foto - «falle con l’effetto mosso» - «see, niente più?!» vorrei dirgli – faccio due scatti a sto poràccio e proseguiamo. 

qui le barricate ricordano

la torretta in legno fatta dagli amanti del bricolage
la torretta in legno fatta
dagli amanti del bricolage
la Grande Guerra: la strada di accesso è ristretta a imbuto e interrotta da spuntoni ricavati da grossi tondini per calcestruzzo, un enorme lenzuolo bianco sulla facciata messo li probabilmente per coprire ciò che va nascosto a occhi indiscreti, c’è persino una torre di avvistamento di legno grezzo. Ste robe a Donetsk e le sognano.
 Nei muri intorno la gente ha appiccicato dei manifesti pasquali con coniglietti e scritte “Cristo è risorto”, una grossa croce ortodossa al centro e un piccolo gazebo da fiera con stendardi della Madonna e orribili icone made in China funge da cappella.
 Poche le bandiere rosse e vessilli della CCCP rispetto a Donetsk ma sulla pensilina, sopra l’ingresso del palazzo, c’è un enorme striscione con la guardia rossa: uno Zio Sam bolscevico che punta l’indice chiedendoti: «ti sei iscritto come volontario?». 
Continuo a chiedermi come possa essere possibile questo sincretismo ortodosso/nazionalista/comunista, ai bei tempi i controrivoluzionari bianchi li avrebbero mandati in vacanza nel Kolyma, adda venì Baffone! Arriva una chiamata sul cellulare di Dima, usciamo da quella zona avvelenata che ci attende Artёm: uno spilugone occhialuto dalla schiena alquanto dritta e l’aspetto tantinello nerd, «ochen priatno tovarish!»
Costeggiamo per un po l’edificio a debita distanza assicurandoci di non avere “gente strana” vicino, già io con i miei tratti mediterranei non passo certo inosservato in terra cirillica.

«Questa per noi è la guerra degli uomini grigi contro quelli verdi […], li chiamiamo “omini verdi” perché
il lenzuolo bianco che copre le finestre
il lenzuolo bianco che copre le finestre

 in Crimea indossavano le mimetiche di quel colore. I loro capi sono tutti russi, non nel senso che parlano russo, nel senso che sono proprio russi, anzi i più importanti come Strelkov o Borodai fanno parte di un gruppo chiamato “il clan dei moscoviti”» - racconta Artёm che con un velocissimo cenno del capo indica una zona del palazzo «li ci sono gli uffici del KGB, nei sotterranei ci sono i prigionieri […], i russi hanno armi automatiche e fucili di precisione, dentro quel palazzo ci sono più armi che uomini.»
 Non so, come faccia a sapere tutte ste cose, non è che ci sta riempiendo di cazzate? Non che la cosa sia improbabile, per carità. 
Su un viale laterale un enorme statua di un uomo barbuto seduto e vestito all’ultima moda medievale troneggia sulla scalinata della biblioteca. Qualche centinaio di metri più in la il centro commerciale Rossija e il cinema Ukraina, ironia della sorte, vivono fianco a fianco, quasi attaccati l’un l’altro. 
«Ho un fratello che è un veterano dell’esercito russo, ha combattuto in Cecenia e un altro è parecchio filorusso. Un altro invece è un attivista del Maidan.» racconta Artem.
 Su un muro finalmente vedo un qualche segno che indichi la presenza di qualche banderovitzi in città, qualcuno ha disegnato la bandiera rossa e nera dell’UPA, l’esercito patriottico ucraino di Bandera «sei di Pravyj Sektor» chiedo - «No, sono un semplice volontario, qui in città non c’è Pravyj Sektor però ci sono molti ragazzi pronti a combattere per il paese, o almeno si stanno preparando, nel mio gruppo siamo circa 200 persone, studenti, lavoratori… la cosa comunque è nata tra noi hooligans» racconta il nostro cicerone – ora comincio un attimo a capire: lui ha un paio di familiari con giusti agganci tra i separatisti e non dovrebbe essere difficile reperire informazioni anche tra il mondo ultras, a questo punto non mi stupirei se venissi a scoprire che sia un capo ultrà tipo Diabolik. 

Continuiamo a fare un giro per le anonime strade di questa città alle 10 del mattino - «studio a Kharkiv, li il sentimento patriottico è molto radicato, appena sono scoppiate le prime manifestazioni filorusse e appena hanno occupato la Crimea abbiamo iniziato a muoverci, la Russia è a due passi, non ne verrà nulla di buono e ci stiamo preparando per combattere.» - salutiamo Artёm con una solida stretta di mano, fra un po’ dobbiamo muoverci per andare a Svatove, ci rifocilliamo al volo in un piccolo negozio che vende alimentari, pesce secco, birra e bevande varie più o meno alcoliche; mi accontento di un panino con prosciutto affumicato (almeno credo che lo sia), e delle ali di pollo fredde e gommose.
 Parliamo di cavolate tra noi aspettando la nostra marshrutka che partirà tra poco, con tutta questa gente intorno non è il posto migliore per parlare di invasione russa. 



Siamo arrivati a Svatove, tre ore per fare 150km e sfruttate per farmi un bel pisolino ridestato occasionalmente dagli scossoni dell’asfalto merdoso, dagli ammortizzatori scarichi e dai raggi di sole in piena faccia. Riesco a dormire ovunque, peccato solo che quando mi sveglio ho sempre il torcicollo.
 La città non ha quell’aspetto grigio e malinconico di Luhansk, il monumento sovietico agli eroi della Grande Guerra Patriottica ha perso la sua doratura ma è tenuta bene, il classico paese in cui la la gente si prende cura del bene comune e della propria storia, non una cicca o una carta per terra. 
Olya non scatta una sola foto, ho sempre pensato che le migliori storie e i migliori progetti fotografici su un qualsiasi luogo geografico li facciano gli stranieri, non perché siano più bravi, semplicemente perché sono in grado di incuriosirsi ancora davanti a un monumento, a un volto, un vestito o un negozietto, che quelli del luogo troverebbero banali. Io ho serie difficoltà a far qualcosa su Taranto proprio perché non troverei nulla di interessante nel volto di un Mimmo u Presidente o in una di quelle merdose ciminiere.
 L’altra notte Olya mi ha rimproverato che guardavo troppo le ragazze… ma vaglielo a spiegare lei che hanno una femminilità e una bellezza che non c’è dalle mie parti. Non che le italiane non siano belle ma sono molto diverse dalle slave, è come quando vidi a Brescia per la prima volta così tante belle ragazze africane coi culi che sfidano la forza di gravità… claro che le guardavo: sono belle, sono diverse dalle altre donne viste fino ad ora… e poi le ucraine non hanno quel muso triste come quella rumenaccia della mia ex, che dio la baci freddo.

Arriviamo con qualche minuto di anticipo al municipio, una struttura in prefabbricato color panna e rosso mattone, sulla pensilina c’è il simbolo della città: il sole del Donbass, il girasole, un ape e il nastro con l’anno di fondazione 1660. Molte città qui hanno una storia recente, in Italia, i centri abitati più recenti furono fondati nel medio evo. 
All’entrata non c’è nessun usciere, non vediamo nessuno, Dima sembra sapere dove andare, all’interno le mura sono di un giallo vomito. Dima bussa a una porta, arriva un signore sulla 50ina poco più con l’espressione a metà tra il paraculo e l’impiegato comunale, è Evgenij Ribalko sindaco di Svatove da una decina di anni, con la voce squillante e contenta ci invita in una sala riunioni e ci presenta un suo collaboratore, credo sia il suo vice sindaco - «Atkuda vj?» chiede Ribalko -

Ribalko mostra la sua maglietta dell'Italia
Ribalko mostra la maglietta dell'Italia

«Bielorussia, Ukraina, Italia e Francia» risponde il nostro caro barbabionda - «Ah… Italia!» E tutto sorridente apre il collo del maglione mostrando la maglietta dell’Italia. Mitico, mi scatta una vocina in testa che dice: «basta che non nomini Celen…» - «kak Celentano!» - ok lasciamo perdere caro ragazzo della via Gluck, piuttosto a sto punto sono curioso di sapere che cazzo è successo coi separatisti qui. 

«Quando sono iniziate le prime proteste filorusse nei dintorni ho cercato capire cosa stava succedendo e cosa fare, il capo dell’amministrazione distrettuale era sparito e io in quanto sindaco dovevo assumermi le mie responsabilità, dovevo capire la gente di Svatove da che parte stava e come si sarebbe comportata, quando sono stato eletto sindaco la prima volta, ormai più di dieci anni fa, avevo giurato di difendere gli interessi dei cittadini ma anche di esser fedele all’Ucraina. 
Con i consiglieri comunali abbiamo deciso di indire un incontro con la cittadinanza e la fedeltà a Kiev non è mai stata messa in discussione, certo ci sono degli elementi filorussi in città ma parliamo di elementi marginali. 
Dovevamo quindi capire cosa fare: a Lugansk hanno occupato l’SBU, è gente armata e non c’è un governo centrale a cui chiedere aiuto in questo momento, per prima cosa abbiamo costituito un gruppo Automaidan, persone che girano in auto col compito di perlustrare la città.
 La seconda cosa da fare è stata di organizzare la Samoborona: il gruppo di autodifesa, sono quindi andato al centro locale di reclutamento e c’erano solo 40 iscritti nelle liste dei volontari, ho chiamato a raccolta le persone iscritte nella lista ho spiegato loro la situazione ed ho fatto come facevano i cosacchi: ho disegnato un cerchio in terra e ho chiesto a chi fosse disposto a mobilitarsi di fare un passo dentro e sono entrati tutti.
 Abbiamo iniziato ad arruolare altre persone, abbiamo cominciato dai cacciatori perché detengono legalmente armi, e a preparare i piani di difesa, non è stato per nulla facile: dovevamo bloccare le strade di accesso, in particolare quella da Lugansk, dovevamo procurarci altre armi e munizioni, kit di pronto soccorso. non potevamo fidarci della polizia locale e dovevamo fare tutto nella massima discrezione, nel caso fosse stato scoperto qualche cosa dovevamo subito avere una giustificazione. 
Abbiamo sabotato i ripetitori dei canali tv filorussi e imparato basi di pronto soccorso. 
In tutto adesso siamo circa 400 volontari, in una città di 19mila persone, che in un modo o nell’altro si occupano dell’autodifesa, non tutti sono armati: chi si occupa delle ronde di guardia in città, chi in cucina, chi delle comunicazioni… 
impediamo il passaggio di mezzi diretti verso la Crimea. Alcuni giorni fa sono arrivati al checkpoint da Lugansk alcune auto con dei giovani che volevano entrare, indossavano delle mimetiche, le persone di guardia hanno detto loro di tornare da dove sono venuti, hanno insistito per un po, poi hanno visto che eravamo armati e facevamo sul serio ed hanno fatto dietrofront. 
Ritorneranno e la prossima volta non sarà così facile, saremo pronti ad accoglierli come si deve.
 Adesso ai checkpoint siamo affiancati dalla polizia stradale, loro si occupano dei controlli in entrata, sono anche armati ma sono in pochi, se non ci occupiamo noi di difendere il nostro territorio, la nostra patria, nessun altro può farlo, saremo anche dei provinciali ma non ci facciamo mettere i piedi in testa da nessuno.» - racconta il sindaco e ci invita a venir con loro a vedere il checkpoint, saliamo su dei mezzi e in pochi minuti siamo li.

Il checkpoint non è nulla di che: un largo nastro di asfalto, una piccola postazione di sacchi di sabbia, una
uno degli attivisti a difesa del checkpoint
sbarra per aprire e chiudere il varco e un container che funge da piccolo ufficietto della polizia. 
Non c’è molto da fare a questo checkpoint, i poliziotti parlottano tra loro, quello di guardia mi intima di non fotografarlo in faccia. 
L’atmosfera non ha niente a che vedere con la diffidenza e la fanaticheria che c’è tra i filorussi, non c’è nessuno a volto coperto, nemmeno gli sbirri, scatto una foto a un ragazzo sui 20 anni, non c’è nessun problema, arriva anche un vecchio trippone che vuole farsi la foto, forse è il padre, fa il segno di vittoria. Assurdo: proprio l’altro giorno mi hanno sequestrato la fotocamera e invece qui nessuno si fa problemi. 
In un angolino riparato da una staccionata e una tenda militare, un signore in mimetica prepara la kasha, una specie di porridge, dentro un grosso calderone.

A dirla tutta ste persone non mi sembrano proprio dei mastini: quasi tutti hanno una panza più grossa della mia, qualcuno potrebbe essere mio padre, mentre i giovani sono parecchio giovani e non mi sembrano particolarmente combattivi, magari di notte ci sta gente più cazzuta.
Accanto a un vecchio rimorchio militare arrugginito c’è un fucile calibro 12, il vecchietto mi mostra le grosse cartucce di sto bestione, non credo che come arma sia il massimo della precisione ma, se Hollywood mi ha insegnato qualcosa, è che quello è un cannone in grado di fare danni a un Terminator. 
I miei compari di avventura, compreso Paul, parlottano con il capo sbirro, nel frattempo entrano ed escono vecchie Lada anni ‘70, multivan con finestrini oscurati e un grosso autotreno che vengono fermati e controllati. 
Favorisco la kasha anche se non è proprio il mio piatto preferito, lo chef ha i tipici occhi azzurri degli slavi e lo sguardo di un bimbo. 
Lo spettacolo è finito, andiamo via e salgo nel furgone con Ribalko, il sindaco, tutto contento come un ragazzino che mostra il suo primo motorino, tira fuori il suo revolver cromato, chi cazzo sei: l’ispettore Callaghan? 

Tornati in paese ci muoviamo a piedi col nostro Clint Eastwood che ci mostra il suo bel villaggio dei Sims che… si ok, carino… ma se avessi passato la mia giovinezza qui me ne sarei scappato il prima possibile. 
Davanti una vetrata rotta Ribalko racconta - «L’altra notte un ubriacone si era messo a distruggere la vetrata, una persona che gli hanno chiesto perché lo stava facendo e lui: «io sono di Pravij Sektor» - «e cosa vuoi?» - «entrare in Russia» - Dima ci traduce, scoppiamo a ridere. 

Al museo di storia locale, ci attende il direttore Korolko, passiamo oltre due ore tra punte di frecce trovate in un campo di battaglia dove cosacchi e tatari si sono fronteggiati, resti di
Nestor Makhno e il comandante bolscevico Pavel Divenko
Nestor Makhno e il comandante bolscevico
Pavel Divenko
armi, una shabla cosacca, parla di Nestor Makho e dell’esercito insurrezionale che qui avevano combattuto contro i bolscevichi, c’è anche una famosa foto del rivoluzionario col colbacco insieme a un compagno. 
«Qui i cosacchi formarono un sich, abbiamo sempre combattuto contro i tatari, i russi, i bolscevichi, l’armata bianca e i nazisti; durante la guerra civile russa molti cittadini aderirono all’armata insurrezionale di Makhno.» 
Ho capito: qua la gente è parecchio combattiva e libertaria, la questione etnica non si pone nemmeno, qui tutti parlano russo anche se hanno cognomi ucraini e si sentono ucraini anche se hanno cognomi russi. 
La visita al museo prosegue tra manichini con uniformi dell’armata rossa, bandiere rosse del soviet locale, stelle rosse, ritratti di rivoluzionari in campo rosso… il direttore del museo è un logorroico da competizione, Ribalko gli fa cenno di stringere - «si, adesso finisco» risponde Korolko – e continua.. il pistolero sbuffa vistosamente e non è certo il solo a rompersi i coglioni qui dentro. 

Il logorroico direttore del museo termina il suo pippone dopo una ventina di minuti, ma solo perché il sindaco prende in mano la situazione e decide che ne abbiamo tutti abbastanza, Ribalko e i suoi ci portano al ristorante del sig. Borjilo, una meravigliosa tavola imbandita aspettava solo noi, un signore sulla settantina riconosce Paul - «Hey io ti ho visto in televisione, su Donbass TV» - il francesce arrossisce, i bicchierini vengono immediatamente riempiti di vodka, si aprano le danze, «BUDMO!», e manco il tempo di appoggiare il bicchierino sul tavolo che subito qualcuno si affretta a riempirlo. Riempio il piatto di patate, pomodori, salumi e formaggi, l’atmosfera quella di amiconi che non si vedono da molto tempo, ancora vodka, il bicchierino non rimane mai vuoto, sono curioso di vedere con l’alcool come se la caverà il mingherlino Paul. 
Riempiamo i nostri piatti con i pomodori, le patate e tutta quella roba che c’è sul tavolo, io però l’insalata russa (che qui si chiama insalata Oliver) non la tocco, mai sopportata.
 Arrivano subito due grosse pirofile piene di ottimo shashlik cotto ai carboni, tra un bicchierino di vodka e uno «Slava Ukraina!» il tempo vola, peccato solo che vorrei conoscere la lingua abbastanza per permettermi un minimo di dialogo con gli altri commensali.
 Arriva la grossa pirofila con le bistecche, le nostre forchette si affrettano a prendere la migliore fetta, sguardi di sfida e colpi veloci, mi ritrovo sul piatto la bistecchissima di Homer Simpson contro il camionista. 
La vodka scorre tanto ma non mi da alla testa, Olya oltre a essere l’unica donna, a parte la cameriera, è anche l’unica che non beve... o almeno non la vedo bere. Esco per prendere un po di aria e fumare una sigaretta nel terrazzo insieme a Dima, c’è quel signore che aveva visto Paul in tv, di me non si ricorda mai nessuno, meglio così, non saprei che cazzo dire - «Tu sei italiano vero?» mi chiede un anziano signore in russo con Dima che mi traduce - «Si» - «eh… pensa che io è stato grazie agli italiani che ho mangiato per la prima volta la cioccolata in vita mia» - «Davvero? Come mai?» - «Ero piccolino e c’era la guerra mio padre aveva incontrato dei soldati italiani in ritirata, avevano fame e mio padre ha catturato delle rane e le ha cucinate, loro per ricambiare ci hanno dato un pezzo di cioccolata».
 Mi sarei volentieri risparmiato questa storia alla De Amicis, però fa anche piacere… in fondo noi eravamo i fascisti, i loro nemici, oddio… noi almeno non abbiamo mai infranto il patto Ribbentrop-Molotov. 
Il piccolo fan del De Amicis continua - «La mia famiglia è russa, io sono nato in Russia e la mia famiglia vive li, io mi sono trasferito qui da che c’era l’URSS e anche dopo l’indipendenza nessuno ha mai badato al fatto che sono russo, ormai qui è Ucraina, è sempre stata Ucraina anche ai tempi del comunismo, ormai da tanti anni è la mia casa, proprio non capisco il motivo di questa guerra.» 

Olya e Ribalko non so dove siano finiti, una persona ci porta in auto in una specie di villa, all’entrata ci accoglie il sig. Igor Vasiliev, a sinistra c’è un grande salotto con un enorme tavolo di massello al centro e il samovar, in casa fa molto caldo, su un muro alla mia destra c’è un armadietto tipo quello che c’è in ostello, ci fanno cenno di spogliarci - «Oh, No!» esclama Dima sottovoce - non capisco, c’è forse una pornostar in vena di gangbang? Mi fanno anche cenno di togliermi collana, anello e orologio, il sig. Vasiliev arriva con degli asciugamani bianchi, dobbiamo metterci in costume adamitico e coprirci le pudenda con quegli asciugamani, sto per provare l’antica tradizione russa della banja: prima di butti addosso dell’acqua gelida, poi entri in una sauna a temperature infernali e quando il caldo è troppo esci e ti butti di nuovo l’acqua gelida, solo che poi sei talmente accaldato che l’acqua la senti ancor più gelida di prima. Paul secco secco con quell’asciugamano in vita e la faccia tutta rossa che si tiene le mani a proteggersi il pirulino, è proprio buffo, si vede proprio che non ha mai fatto la visita per la naja. 
È la prima volta che faccio una sauna in vita mia, devo dire che non è malaccio, con noi c’è un tizio tutto nudo che mostra cosino mignon... si depila pure, naaaa!!! 
Butto un po di acqua sulla pietra rovente alla mia destra mentre Dima parla con Pipino il Breve di politica e separatisti - «No, Kassimo, please...» - l’irsuto bielorusso non gradisce stare qui, aumentare l’umidità peggiora solo la situazione. 
La temperatura però è troppa, gnà faccio, vado a rinfrescarmi brrrr…. 
Rientro nella sala rovente, credo che cmq abbiamo già passato molto tempo li dentro, decido di provare a frustarmi con quel mazzo di betulla, che poi passa di mano a tutti gli altri li dentro. 
Dopo un ora in quell’infernetto siamo tutti fuori, la mia pelle ha perso quei brutti punti neri sparsi per il corpo e la pelle profuma di pelle, via quell‘odore di saponi chimici, stupendo, spero che finalmente adesso possiamo andar… ah no, ci offrono il tè alla russa con l’acqua scaldata col samovar, avrei voglia di una sigaretta, altro che il tè, dovrei uscire se voglio fumare, ma con i capelli bagnati e la temperatura fuori non mi pare un idea brillante.
 Mi viene passata anche una zuccheriera di porcellana con del miele così duro e compatto che pare una grossa caramella ambrosoli, è proprio difficile affondare il cucchiaino li dentro, qui lo magnano come nutella e lo usano anche al posto dello zucchero, ne basta poco più di una puntina, non ho mai amato il miele ma devo dire che è squisito, è molto diverso da quello che ho mangiato in Italia, questa è roba che hanno preso da un apicoltore, non è roba industriale e si sente. 
Fantastica l’ospitalità qui, amo troppo questa gente, però ora voglio buttarmi su un letto, sono stanco e domani dobbiamo rientrare a Donetsk, so già che dovrò alzarmi prima dell’alba e il pensiero non mi fa impazzire dalla gioia. Ci rivestiamo, i miei capelli sono ancora umidi, mi tiro su il cappuccio della felpa, saliamo su un auto che ci porta pochi metri più in la verso un hotel carino con le mura rivestite in legno, ricorda un po certi posti che ho visto quando vivevo in Trentino, salutiamo Vasiliev e una signora corpulenta in abito tradizionale ci accompagna alla stanza, ha una scollatura che… non ha due tette...è una centrale del latte, wow, meravigliose... finalmente un po di tette che qui gli dei son stati un tantinello avari nel distribuirle: REAL SVATOVE BOOBS! 
Mi lavo i denti passandomi il dito indice, non pensavo che avrei passato la notte fuori e non ho portato con me lo spazzolino, crollo sul letto e buona notte.

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