21 aprile 2023

Welcome to Hell

 

Slovyansk 21/04/2014

«Slovyansk, tri bilieti»
- la signora dall’altro lato del vetro ci lancia lo sguardo di chi si sta trattenendo dal dirci «ma perché siete così coglioni da andarci?». durante il viaggio miei due compari parlano, io dormo, non sono manco le 7 che mi sveglia l'orso bielorusso, voglio una flebo di caffè.
Non c’è nessuno in stazione, apparentemente sembra tutto ok.
Per i separatisti questa è la linea del Piave, poco tempo fa c’è stato l’assalto e la presa delle caserme e degli uffici, han preso carri armati, armi e munizioni, ci sono dei capi: Igor Strelkov, un ometto magrolino coi baffetti su cui non scommetteresti mille lire e Vyaceslav Ponomarev autonominatosi sindaco: un losco figuro con due inquietanti canini d’oro in bocca. Da qui arrivano notizie su notizie e non sappiamo un cazzo su cosa sia vero o falso, di certo ci sono persone sparite e morti ammazzati, come il sindaco (regolare) "arrestato" dai miliziani, altri ritrovati in un fosso con un buco in testa.
Ieri sera Dima ci ha parlato di rumors sulle aggressioni agli zingari, dubito che i media importanti siano interessati a questa vicenda, non fotte un cazzo a nessuno degli zingari, tranne quando fanno reati, chissà se a questi gli va di parlare, ho dei dubbi. Ieri sera a Russia Today un propagandista ha mostrato un biglietto da visita di Dmytro Jarosh “trovato” dove c’è stato lo scontro, p oggettivamente la prova che il comandante Jarosh voleva lasciarci la firma d’artista... ci sarebbe da ridere per questa buffonata se non fosse che sono crepate delle persone.


Il cielo di Slavyansk è grigio, «Ladies & gentlemen: Welcome to Hell!!» esclama il bielorusso, un tassista si rifuta di portarci in giro ma il suo collega accetta.

Un giovane miliziano tra le barricate dell'SBU
Un giovane miliziano tra le barricate dell'SBU

Barricate per strada, l’autista è costretto ad allungare tantissimo, sembra una specie di Ikea della guerriglia urbana. Non c’è nessuno in strada, seminascosta da un cespuglio la scritta: «L’amore salverà l’Ucraina!».
Il taxi ci lascia a debita distanza dall’SBU, l’edificio è circondato da barriere di sacchi di sabbia, avranno saccheggiato le spiagge della riviera romagnola, un carro armato punta il suo bel cannone verso l’ingresso, ci presentiamo alla guardia armata che chiama alla radio i suoi degni compari.
Un sorridente ragazzone alto e barbuto arriva e parla in inglese, è stato messo li per fare public relations: «Italian? My mom live in Rome: she’s badante. Hey mama don’t worry, I protect myself» - si alza il largo maglione alla Freddie Krueger mostrando il giubbotto antiproiettile, il ragazzo è eccitato.

Chiede i passaporti, sto un po cacato, gli do la carta di identità, dopo pochi minuti arriva un altro barbudos sui 50 anni, capelli bianchi e panza - «che cazzo è sta roba qui?», riferito al mio pezzo di carta, horosho: gli do il passaporto.
Possiamo entrare a patto che non fotografiamo le facce delle persone e il palazzo dell’SBU, il panzone è tal Evgenj Gorbik un professionista, si vede subito, ci recita il copione imparato a memoria per i giornalisti: «combattiamo contro Pravy Sektor e i nazisti di Kiev, il popolo ha conquistato il palazzo, le armi le abbiamo trovate nei nascondigli sovietici ecc...» - come se non lo sapessi che i nascondigli furono saccheggiati e svenduti per una cassa di vodka negli anni ‘90.
Mostra i carri armati con le bandiere russe e le scritte sprayate a stencil «Narodnoe Opolchenie Donbassa» (Esercito Popolare del Donbass) - «Con questi tanks arriveremo a conquistare L’Vov» al signorino piace fare lo sborone.
Faccio qualche scatto in giro mi sembra di fare foto stupide da turista di guerra.
Usciamo da quel posto del cazzo, Dima riferendosi al panzone dice: «Quel tipo è di Mosca.» - «Come lo sai?» - «Parla come un moscovita.»
Nella piazza del municipio l’imponente statua di Lenin col cappotto e le tesi di Aprile giganteggia davanti 

Il sig. Prokhorov

a noi, il palazzo è circondato da copertoni e sacchi di sabbia, suppongo che mr Smile sia li dentro.
Si avvicina un anziano in bici, il sig. Prokhorov da due giorni vuol sapere che fine ha fatto il figlio Oleg, tenente colonnello della polizia: sabato era in casa con la moglie e i figli, uomini armati sono entrati in casa e se lo sono portati via, piange… non sa nemmeno se il figlio è vivo o morto, un civile spuntato chissà dove gli consiglia di non parlare e andarsene.

Poche centinaia di metri troviamo un altra discarica di copertoni, legni, transenne, cartelli contro la “junta” e scudi della polizia a protezione dell’unico ingresso.
In un piccolo gazebo smontabile c’è un tavolo con dolci, tè e un mazzo di tulipani, una signora ci offre qualcosa, è pasquetta… prendo del caffè, sembra piscio ma sticazzi, ho bisogno di caffeina.
Dal piccolo ingresso laterale esce uno con un casco da sbirro, Dima chiede se è possibile entrare per intervistare un po di gente - «Net!» - facciamo presente che siamo stati al SBU ma la risposta non cambia, però fanno entrare due pseudo giornalisti di Russia Today.
Sono circa le 9, durante la passeggiata troviamo l’unico edificio su cui sventola ancora la bandiera giallo blu: la facoltà di pedagogia, strano che qualcuno non abbia provato a imbrattare la targa all’ingresso o rubare la bandiera per bruciarla.
La città sembra surreale: c’è chi passa la calce a bordo dei marciapiedi, una bambina tiene la carrozzina del fratellino (o sorellina, chi lo sa?), è incredibile il contrasto tra la normalità della vita che va avanti e la città sotto controllo di un esercito straniero. Una babushka vende fiori su un marciapiede, sorride: «dobry dienh» - ricambiamo il saluto cercando di ottenere qualche info «io non mi interesso di politica, è roba da uomini, chiedete a mio marito» - indica un gruppo di anziani uno più alcolizzato dell'altro.
Continuiamo la nostra passeggiata, da un portone esce una signora con una maglia rossa, Dima: «scusi: dove è il quartiere degli zingari?» – ci guarda sospettosa «perchè vi interessa?» - «siamo giornalisti: un italiano, un francese... io sono bielorusso» - ci pensa su… «Il quartiere è oltre quel ponte, ma non c’è rimasto nessuno.» - «Cosa è successo?» - «Titushki forse… non so di preciso... sono fuggiti e nessuno sa dove siano andati.» - «C’erano stati problemi con loro prima che arrivassero i miliziani?» - «Macché: fino a due settimane fa vivevamo tutti tranquilli: russi, ucraini, zingari, ebrei… poi improvvisamente sono apparsi questi qui, non sappiamo chi sono o da dove vengano… e ora non si capisce più niente!» - «I soldati non sono di qua?» - «Quelli sono apparsi da un giorno all’altro, gente mai vista prima.»


Il fumo da una ciminiera indica che le fabbriche sono ancora attive; pescatori della domenica e passeggiatori... sembra una domenica qualsiasi. 
Accanto al ponte una vecchia porta di legno usata come cartello indica la presenza di mine oltre il bordo della strada (sarà vero?), una barricata rallenta l’ingresso delle auto, un miliziano alle nostre spalle corre verso di noi gridando, si avvicina puntandoci il ferro: una doppietta a canne mozze - «VY KUDA??» - mi volto, senza accorgermene altri tre personaggi in borghese spuntati chissà dove ci circondano, chiamano qualcuno al cellulare e in pochi minuti arriva un taxi senza targa, il nostro nuovo amico ci “invita calorosamente” a entrare - «fuck!» esclama Dima - non riesco a vedere la faccia dell’autista - «What happen?» chiedo al bielorusso - «I don’t know!». Veniamo portati a qualche centinaio di metri dal ponte, vicino uno spiazzo, arriva un tizio che non è un Ciccio Formaggio come “l’amico” che ci ha portato in limousine: ha il kalashikov, un giubbotto antiproiettile di quelli seri e due spalle grandi quanto un armadio, si rivolge direttamente a me: «APPARAT», ostento sicurezza che non ho, sono parecchio nervoso, ma non ho fatto nulla che potesse dar loro problemi, gli mostro le foto col fare di chi non deve nascondere nulla… ci chiede anche i passaporti, prende la fotocamera e se ne va… ho il nodo in gola, non ho paura tanto di quanto sta succedendo; ho paura di non vedere più la fotocamera, quell’obiettivo l’ho comprato col mio primo stipendio. 
L’autista ci fa segno di uscire, riparte… siamo in una città sotto il controllo di bande armate, senza documenti, senza fotocamera e senza sapere in che zona stiamo, dove cazzo possiamo scappare? Almeno abbiamo il telefonino. Dima manda degli sms, io mando un messaggio a Cecilia, monsier Dupont sta li a guardare con la faccia da ebete. 
Cecilia mi risponde: «Chi sei?» - «Cosimo» - mi richiama e le spiego la situazione - «faccio subito qualche chiamata, non aver paura».
Ricevo una chiamata dall’ambasciata a Kiev, nuovamente spiego la situazione, mi chiede anche se parlo il russo - «con me ho una persona che mi fa da traduttore.» - «adesso vedo di fare qualcosa.»

Quanto tempo è passato? mezz’ora, un ora, due… boh… quella bestia di miliziano si avvicina a noi - «karashò, karashò!» esclama al cellulare, ci fa segno di seguirlo, sembra di stare a una scampagnata di bifolchi del Tennesee malati di armi: un gazebo della birra Sarmat, donne che sistemano su un tavolo mazzi di papaveri, agguerriti ventenni in tute camo e volto coperto, uno di questi si diletta a scattare foto con la MIA fotocamera, vorrei dirgli: «quella zoccola sifilitica che ti ha dato origine! Cosa penseresti se io mettessi le mani addosso alla tua donna?» - il problema è che il giovinotto è armato e io no, un buon motivo per lasciar perdere - «Hey ciao amico!» - esclama in italiano un giovane in borghese dietro di me - «Do svidanja tovarish» - rispondo sorridendo… mi restituiscono la macchina, sembra che il peggio sia passato, il cuore rallenta, l’armadio ci restituisce i passaporti... inizio a sciogliermi finalmente.
Non so cosa abbia fatto cambiare loro atteggiamento: sarà che sono Italiano come l’allenatore della nazionale russa e come Al Bano? Morirò col dubbio. Una signora mi invita a sedermi e a favorire del tè - «grazie ma non mi…» - no, niente, mi tocca favorire, mi siedo accanto a un altro armadio con due gambe del quale vedo solo che ha gli occhi celesti… mi fa una strana impressione e mi osserva… che dici Cosimo: ci avranno messo il polonio?
A questo punto con la mia faccia di bronzo chiedo se posso scattare loro delle foto… sono esibizionisti, il click gli piace, si sentano come le modelle, se fosse possibile si toglierebbero quei cosi in faccia e mi chiederebbero di mandare loro la foto su VKontakte.

Altri due giovani miliziani

Il ragazzo con la roba da moto tiene il suo AK a canna corta in braccio come una bimba col Cicciobello, nessun miliziano indossa alcuna patch o simbolo di riconoscimento ad eccezione del nastro di S. Giorgio, sembrano la versione pezzente degli omini verdi in Crimea poco tempo fa.
«Di dove siete voi?» chiede Dima - «Donbass» risponde l’armadio, ok: abbiamo capito che questi sono quei personaggi usciti chissà dove di cui la signora parlava prima.
Dima gli chiede anche se ci possono dare un contatto per entrare nell'SBU, scopriamo che non è possibile e che ogni blok post ha le sue regole, come se non ci fosse una regia unica e siano tutti indipendenti l'uno dall'altro.
Ho un idea: possiamo farci delle foto ricordo insieme? Se dovessimo avere altri casini prossimamente possiamo giocarci il jolly. E ovviamente questi esibizionisti deliranti accettano, tiro fuori la compattina e scatto ai miei compari, quanto a me, ci pensa il francese.
Beh è arrivato il momento di dire «Do svidanja».
Appena essere letteralmente passati dall’altra parte della barricata mi telefona Lucia Goracci, le ha dato il mio numero Cecilia, racconto quanto successo - «Tutto a posto ora, spero di incontrarti e ringraziarti di persona».
Camminiamo alla cazzo di cane senza sapere che direzione prendere, decidiamo di tornare a Donetsk: la situazione qui è assurda, può scoppiare una sparatoria da un momento all’altro, noi non abbiamo protezioni e nel caso rischiamo pure di rimanere bloccati qui; casomai tanto possiamo sempre tornare fra qualche giorno.
Avviso Cecilia che il peggio è passato e che abbiamo intenzione di tornare a Donetsk, è contenta di poter esser stata utile, mi chiede di chiamarla quando siamo arrivati, ha la classica voce di una madre che si preoccupa ma non vuole farlo capire, la avviserò sicuramente.

Dobbiamo attraversare il ponte, anche questo lato è chiuso da una barricata, all'ingresso in uno spiazzo un capellone barbudos con la mimetica, dall’aspetto sembra una versione militare dello zio fricchettone che fuma le canne - «Privet» - conosciamo Leonid.
Ci spiega che lui è russo, si sente russo e vuole essere considerato a tutti gli effetti un russo e si sente discriminato per questo - «questo non accadeva in URSS» (e grazie al cazzo, fossi ebreo vorrei vederti) -

Il mitico passaporto sovietico di Leonid e la foto
col mullet da albanese sbarcato dal barcone nel 91

tira fuori due passaporti: quello sovietico e quello ucraino - «guardate qui: in quello sovietico c’è scritto la mia nazionalità, vedete che non c’è in quello ucraino?» - vorrei tanto chiedergli se questa stronzata sia una motivazione valida per far scoppiare una guerra, ma sono calamitato dalla foto di Leonid a 16 anni col mullet alla Andrè Agassi, il taglio di capelli simbolo della tamarragine di quegli anni deliranti e trashosi.Leonid da buon miliziano non è di qua, viene da Amvrosiivka: un… boh, forse un villaggio, a circa 4 ore di auto da Slavyansk, più vicino a Rostov che a Donetsk, chissà perché non sono sorpreso della cosa, fino ad ora tutti i miliziani che abbiamo incontrato sono tutti di fuori.
Gli si illuminano gli occhi mentre parla della figlia e della nipotina - «Ma tu che diresti a tua figlia se facesse quello che ora stai facendo tu?» chiedo - «Ah lei è come me, quando si mette in testa qualcosa non c’è nulla che possa farle cambiare idea».
 Il nostro tricologico amico è una specie di appartenente a un qualche ordine di S. Giorgio o qualcosa di simile, il santo/soldato venerato dai russi più ferocemente ortodossi, tira fuori dalla sua Lada rossa e lercia made in CCCP una specie di drappo da parata rosso col santo che trafigge il drago. Non capisco cosa centri questo fanatismo religioso con il separatismo filorusso, tuttavia salutiamo anche il nostro fan di S. Giorgio e andiamo via.

A pochi metri di fronte alla stazione ci passa accanto un uomo sui 25 anni, è un rom - «Hey… zanes romanès?» - si gira di scatto, ha gli occhi terrorizzati, alzo le mani per fargli capire che non ho cattive intenzioni - «romanì, da?» - arrivano anche i miei compari - «vogliamo solo parlare» - dice Dima in russo «sei rom, vero» - «si» - «senti scusa, ma che è successo alla vostra comunità? So che siete dovuti scappare, è vero?» - «non c’è rimasto nessuno, io sono tornato a prendere alcune cose da casa ma sto andando via» - «cosa vi è successo?» - «persone ubriache sono venute dove abitiamo, hanno cominciato a urlare, hanno riempito di botte alcuni di noi e poi hanno sparato sulle nostre case, hanno detto che dovevamo andare via o ci avrebbero ammazzato tutti, siamo scappati.» - «Te la senti di lasciare un intervista? Non diremo il tuo nome.» - «devo andare è pericoloso parlare qui, dammi il tuo numero che ti richiamo io» - Dima gli scrive il numero su un pezzo di carta, sappiamo benissimo però che non chiamerà mai.

In stazione Dima si è perso a raccontare al telefono quanto accaduto… porkoddio Dima: hanno annunciato il treno, dobbiamo andare… è completamente immerso nel suo racconto, il treno giustamente non ci aspetta e riparte; Dima ti spaccherei la faccia se solo potessi.
Prendiamo un taxi per Kramatorsk, da li prenderemo una marshrutka.
Dal finestrino del taxi vedo barricate, scritte sui muri, un edificio con i sacchi di sabbia alle finestre… scommetto che stiamo facendo il giro dell’oca, il taxi si ferma improvvisamente: siamo a un checkpoint, un miliziano mascherato guarda dentro - «KTO VY? PASSPORTI!» - eccoli qua. Abbasso il vetro del finestrino sperando di capire dove cazzo sto: un grosso capannone industriale e una maxi scritta Zeus Ceramiche, ok facile da ricordare, ci restituiscono i passaporti, anche questa è andata.

Kramatorsk, la marshrutka sta per partire tra poco, prendo posto vicino al finestrino, come tutti i vecchi minibus anche questo ha dei sedili scomodi in finta pelle e le tendine ai finestrini dal gusto tipicamente est europeo.
Ricevo una telefonata da un giornalista de La Stampa, mi chiede dell’accaduto, scopro che l’Euromaidan Press Center ci aveva dato per rapiti, parlo raccontando il fatto… il minibus frena, sospendo un attimo la telefonata, siamo a un altro checkpoint, un miliziano entra, tempo di un occhiata e se ne va, il bus riparte, continuo la chiacchierata.
Visto che probabilmente la mia vicenda sarà di dominio pubblico è il caso di chiamare Nicola e dirglielo, meglio che lo sappia da me direttamente che chissà dove: «Nicò, vedi che sto in Ucraina,  è successo che bla bla bla… mi raccomando, che la cosa rimanga tra noi e non dire niente a nessuno, ok?” - «si certo non ti preoccupare.» - «no, figurati, so benissimo che ti sai fare i cazzi tuoi» rispondo con scazzata ironia a mio cugino.

Siamo finalmente arrivati alla stazione bus, siamo affamati e stanchi, prendiamo un taxi per l’hotel Ramada, Dima ha un intervista con dei giornalisti georgiani, figuriamoci se si perdevano una roba simile proprio loro che hanno fatto non so quante guerre contro i separatisti; avviso Cecilia che sono arrivato in città «ti va di fare un intervista?» - «Certo» - «Però non posso muovermi che non sto bene, devi raggiungermi tu, sono all’hotel Ramada» - «perfetto, tanto ci devo andare comunque, dammi il tempo di arrivare.»

Il Ramada è l’hotel più fico di tutti a Donetsk, in questi giorni tutti quelli BBC, AFP o Al Jazeera stanno li, un freelance non potrebbe mai permettersi una roba simile.
Le allegre comari incontrano i georgiani davanti l’ingresso, io avviso Cecilia che sto arrivando, chiedo a Dima di aspettarmi nel caso finissero prima ed entro nella grossa porta girevole rivestita di acciaio a specchio e raggiungo Cecilia in stanza, ha qualche decimo di febbre, nulla di preoccupante.
L’intervista è finita, avrò impiegato mezz’ora, scendo giù per tornare dai miei due amici di avventura… non ci sono, chiamo Dima e scopro che sono già in ostello… vaffanculo, ti avevo detto che sarei sceso dopo poco… cazzo, non ho manco i soldi per il taxi… ok, trovo un taxi, l’autista sembra anche parlare inglese - «Prospekt Myra 3, but before i need to go to bancomat» - in pochi minuti sono davanti il Red Cat, cazzo, ti avevo detto di passare da un bancomat prima! Gli lascio in auto il mio zainetto, citofono e mi faccio prestare da Dima i soldi per il taxi.

Buttato sul divano dell’ostello, ho fame… esco con Dima, passo dal bancomat del Credit Agricole e andiamo al supermarket h24 li vicino, al piano di sopra c’è tutto il reparto alcolici prendiamo della vodka, al banco frigo ci sono delle strane cose dentro dei barattoli di vetro è pesce secco, la gente qui usa mangiarlo quando beve birra, Dima compra del pollo affumicato in confezione sottovuoto, io un po di schifezze varie che sembrano la cosa più decente da mangiare.

Tornato in ostello mi chiama un giornalista del Brescia Oggi, avevo detto a Filippo che nel caso poteva dare il mio numero, rilascio un intervista pure a loro, mezz’ora al telefono, ma ora basta devo ancora scaricare le foto, editarle e mandarle in agenzia, voglio solo farmi una doccia e dormire.

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